

Claudia Cardinale, talento, sfrontatezza e ironia
Nei personaggi un inno alla femminilità consapevole e felice
(di Giorgio Gosetti) Ci sono molti modi, ma pochissime certezze, per descrivere l'arte di un interprete, chiamato a tradurre, sulla scena o sullo schermo, le passioni e la visione del suo autore. Claudia Cardinale sfugge ad ogni precetto, a ogni scuola, perfino al suo tempo di cui è stata - come Monica Vitti, collega rispettata ma mai vicina umanamente - anticipatrice. "Io non mi sono mai considerata un'attrice - raccontava -. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica". Eppure a una scuola si era avvicinata, giovanissima, grazie al premio che le permise di frequentare brevemente i corsi del Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1957. Forse fu il trauma subito nello stesso periodo (quello stupro a lungo celato al mondo) che la allontanò dal cinema, tanto da farla ritornare a Tunisi. Fu lì - come si sa - che la rintracciò Franco Cristaldi per offrirle un contratto con la Vides e un ombrello protettivo per la sua vita privata. Il successo travolgente de "I soliti ignoti" (1958) le cambiò la vita suo malgrado. Sarebbero passati anni prima che Cinecittà le permettesse di usare la sua voce, inconfondibile, e di mostrare un talento quasi animale che mischiava pudore, sfrontatezza, generosità e ironia. "Mi sono resa conto - avrebbe poi confessato - che per recitare usavo molto la mia vita interiore, che il mio modo di essere attrice era di mettere me stessa dentro i miei personaggi. Il mestiere del cinema, non per scappare dalla vita, ma per viverla meglio di come ho vissuto la vita vera, se non altro con più sincerità e consapevolezza". In qualche modo sono i mezzi che nello stesso periodo misero in luce l'arte di Marcello Mastroianni e rinnovarono lo schema espressivo delle "bellezze" anni '50 come Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano. Rispetto a queste icone in equilibrio tra apparenza quasi "bidimensionale" e vitalità popolare, Claudia Cardinale aggiunge un'ironia, una distanza dal personaggio che nello spettatore genera empatia e mistero: come se non fosse mai possibile - giustamente lo ha scritto Paolo Mereghetti - arrivare al cuore del personaggio e fissare l'attrice in un cliché prestabilito. Quando si cita l'exploit del 1963 (il simultaneo successo ne "Il Gattopardo" e "Fellini 8 e ½") si tocca con mano questa ambiguità emozionante e modernissima. Subito dopo si avverte un'altra specialità dell'arte di Cardinale: vivere i personaggi come se ogni volta l'attrice vi lasciasse una scia di sé, andando però già oltre, in una sorta di fuga intima, per evitare che altri si impossessino della sua anima, catturata solo un istante dall'obiettivo della cinepresa. Ci vollero registi che capissero e accettassero questa sfida costante dell'attrice. Claudia li trovò da subito in maestri come Pietro Germi (il silenzioso) o Mauro Bolognini (l'esteta), dittatori capaci di imprigionarla per un momento (Visconti) o complici (Fellini) che la sapessero assecondare. Basta vedere come si calò del personaggio di Jill in "C'era una volta il West" di Sergio Leone, come giocò con il suo ruolo ne "Le pistolere" di Christian-Jacque con la sua amica Bardot, come rintracciò l'umanità aristocratica della Principessa di "La pelle" per Liliana Cavani, per capire che l'arte dell'attrice sia andata di pari passo con ciò che sanno scavarle dentro i suoi migliori registi. "Le donne che fanno il mio mestiere spesso sono disperate - ha detto -. Gli uomini, solitari, quasi sempre e quasi tutti: aspettano di esprimersi solo davanti alla macchina da presa. Che Dio conservi tra noi gli ironici, quelli che amano la vita più del loro lavoro. E soprattutto i pazzi". L'ultima frase spiega le ragioni del suo binomio personale e artistico con Pasquale Squitieri, l'ultimo che ha saputo restituirle il piacere infantile del gioco (una parte di sé che la vita le aveva negato), il desiderio di un sorriso e della passione. A voler sintetizzare il segreto di un'attrice che è stata diva ma ha preferito sempre essere una donna sullo schermo, potremmo dire che è stata proprio la sua capacità, esercitata con determinazione in una lunghissima e luminosa carriera, di dare spazio alla vitalità animale che celava, facendone un inno alla femminilità più consapevole e felice. Quella felicità tanto a lungo cercata e poche volte trovata fuori dallo spazio ideale della scena.
H.Jones--VC